sabato 17 dicembre 2011

DIVISE A SCUOLA? UN PARERE


http://www.repubblica.it/scuola/2011/12/17/news/divisa_scolastica-26731745/


Io credo che questo argomento sia più importante di quanto sembri ed è delicato. Storicamente le divise a scuola ci riportano all'epoca fascista e in generale presessantottina. La forza del collettivo, la comunità in cui sublima l'individuo. Giovanni Gentile. Quest'argomentazione lascia tuttavia il tempo che trova, dobbiamo confrontarci con problemi nuovi. "L'anarchia indecente" tra gli adolescenti di cui parlano alcuni, dipende certamente da molti fattori, ma non credo che sia necessaria la divisa per limitare scollature o quant'altro. Basta il buon senso dei Presidi per far capire che la Scuola non è un luogo dove fare spettacolo di sè stessi. Circa la questione delle diverse possibilità economiche, credo tuttavia che sia un pò riduttivo pensare che le differenze tra gli alunni vengano meno per via di una divisa. La comunità dei ragazzi non è solo scuola, e la rete, è fb, sono i luoghi di ritrovo. Le differenze vengono sempre fuori, basta uscire da scuola con la divisa e chiedersi che "fanno i tuoi", "che fai stasera". Basta parlare insomma. Tant'è vero, come dicevamo prima, che le divise furono introdotte per altri motivi. Credo invece che il senso di appartenenza vada tutelato, più che con una divisa, con la qualità del tempo che si passa a Scuola e con l'investimento nella credibilità dell'Istituzione, oltre che con la promozione di momenti di confronto interscolastici, sportivi, culturali e di altro tipo. E' chiaro che, la cosa che mi da più fastidio nell'articolo pubblicato da Repubblica, vista la situazione attuale della Scuola Pubblica, è che sia un privato a finanziare, in una singola scuola, l'adozione della divisa. E non si capisce bene a che pro. Si comprende bene allora, o tutti o nessuno. Tuttavia, in ultima analisi, credo che quel messaggio genuino che si volle lanciare con l'abolizione della divisa e la rivoluzione dei costumi vada tutelato. Perchè si tratta in fondo, del rovescio positivo dell'idea di comunità e di uguaglianza gentiliana, l'uguaglianza dei diritti e delle persone che deriva proprio dal loro essere diverse. La presenza di "simboli" che codifichino un senso di appartenenza mi trova d'accordo, ma se affermiamo che sia necessario "concretizzare" l'uguaglianza in qualcosa che attiene così da vicino allo stile di vita di una persona, rimarremo sempre con qualcosa che rimane al di fuori di questa uguaglianza, perchè, al di là delle possibilità economiche, siamo diversi comunque. Se basta "parlare" per far venir fuori le differenze, io credo, quindi, che il problema vada risolto a partire dal linguaggio e dal confronto, puntando sulla formazione e la riqualificazione professionale dei docenti, che devono avere il compito, oltre che insegnare la loro materia, di trasmettere alcuni dei valori fondamentali della nostra Repubblica, l'accettazione e la valorizzazione delle differenze, il rispetto, con la R maiuscola, la solidarietà.

lunedì 12 dicembre 2011

Presentazione di "No alle bombe sul diritto allo studio"



Oggi alle 18.00 conduco l'evento che presenta la campagna "No alle bombe sul diritto allo studio", dove si parlerà della copertura totale dell borse di studio attraverso una riduzione delle spese militari. Info su www.giovanidivalore.it

domenica 11 dicembre 2011

ICI - CHIESA: occhio ai compromessi



Il dibattito sulla mancata introduzione della nuova ICI (IMU) agli immobili di proprietà ecclesiastica nella manovra ha determinato finalmente in maniera consistente presso l'opinione pubblica il sollevarsi della questione. Bisogna tuttavia chiarire alcuni punti, perchè in questi frangenti, specie dopo le aperture della Santa Sede, è necessario mantenere la lucidità per affrontare i problemi in maniera efficace ed evitare soluzioni affrettate che vizino ancora di più il dibattito.

Come hanno specificato i radicali, nessuno vuole far pagare l'ICI a parrocchie e caritas, bensì a quella serie di immobili molto difficile da quantificare, che sono adibiti ad usi differenti dal culto.
La posta in gioco sembra essere variabile. L'ufficio studi dell'Anci ha calcolato qualche anno fa un gettito potenziale di 400-700 milioni di euro. L'associazione ricerca e sviluppo sociale (Ares) si è spinta fino ai 2,2 miliardi.

Queste oscillazioni dipendono dalla legislazione vigente. Il Dlgs n. 504/1992 istituì l'ICI normando anche le esenzioni ed escludendo gli immobili degli enti no-profit adibiti tuttavia a finalità commerciali. La finanziaria del 2006 estese poi l'esenzione anche per gli usi commerciali (secondo Gov. Berlusconi), mentre Il decreto-legge 233/2006 del Gov. Prodi limitò in seguito l'esenzione agli immobili ad uso “non esclusivamente commerciale”.

Per tanto, con questa locuzione tristemente compromissoria, la questione divenne di lana caprina, motivo per il quale anche la UE ha aperto un'inchiesta. Se un pensionato per studenti, una villa, una casa o qualunque altro immobile contengono un piccolo altare o una cappella, possono dichiararsi luoghi adibiti al culto a fini, per l'appunto, “non esclusivamente commerciali”.
Tutto questo avviene, inoltre, tramite autocertificazione e sui controlli, rarissimi, andrebbe aperto un capito a sé stante.
Avvenire e la stampa vaticana stanno prontamente replicando che la Chiesa paga il dovuto. Tuttavia, con questa legge, pochi sono gli edifici esclusivamente adibiti ad uso commerciale. Il problema è individuare una zona grigia costituita da immobili di vario genere, pensionati, alberghi, pizzerie, istituti per studenti con camere che si affittano anche a lavoratori e famiglie. Moltissime di queste attività fanno concorrenza sleale ai privati, che non hanno ovviamente simili esenzioni.

Feltri, sul Giornale, replica che si colpirebbero attività che tappano i buchi del welfare pubblico. Pensare di avere bisogno della Chiesa perchè siamo incapaci di garantire un welfare decente, rispondo io, significa autodefinirci un Paese medievale.
Detto questo, ribadiamo, bisogna tutelare le attività realmente non a scopo di lucro, e attuare un programma straordinario di controlli per accertare come vengono realmente utilizzati gli edifici e capire dove effettivamente esiste business.

Ma bisogna stare molto attenti alle parole, perchè potrebbe essere molto facile dire “La chiesa paghi l'IMU per gli edifici non adibiti al culto”. In questo modo, la questione potrebbe essere scaricata tutta sull'aspetto catastale, amministrativo e burocratico, senza modificare la legislazione vigente; si tratta a grandi linee della strada che si prospetta dopo l'apertura di Bertone. Si dovrebbe, in tal caso, oltre a ricalcolare il numero degli immobili in disuso posseduto dalla Chiesa (a prescindere), determinare dove non vi sia traccia di attività religiose; cosa molto rara. E a quel punto avrebbe in parte ragione Avvenire, che si riferisce ovviamente a quelle poche attività a fini “esclusivamente” commerciali che pagavano la vecchia ICI.

Ciò che bisogna chiedere con chiarezza, invece, è che L'IMU la paghino TUTTI gli edifici che producono business, qualora avessero ANCHE attività di culto. Questo perchè sappiamo bene che di altari e cappelle se ne trovano davvero in gran numero.
Il paradigma va dunque rovesciato: se un edificio ha una qualche funzione ulteriore al CULTO, deve pagare l'imposta. Tra dire quindi: "l'esenzione va mantenuta solo per quegli edifici adibiti al culto" e dire "L'esenzione va mantenuta per quegli edifici adibiti SOLO al culto", c'è una bella differenza e, naturalmente, va considerata la seconda opzione.

Rosario Coco
Resp. Naz. Scuola Università e Cultura Giovani IDV.

lunedì 5 dicembre 2011

L'1,5 % di Monti








1,5%. Un numero che dice tutto. O, meglio, un numero che insieme ai numeri che non ci sono spiega tutto. Un numero che risponde agli interrogativi che ci ponevamo tre settimane fa, ma che conferma anche un dato oggettivo che non può essere negato: con Monti si è ricominciato, nel bene o nel male, a fare politica in Paese che è ormai diseducato a questa “strana prassi umana”. Non c'è più Berlusconi, non ci sono più i proclami, non ci sono più gli scandali, le toghe rosse, i comunisti e la stampa deviata. Non ci sono più quei ministri impresentabili che c'erano prima.
C'è, tuttavia, in quell'1,5% , l'amarezza del disincanto. C'è la consapevolezza che l'Italia continua ad essere ostaggio di quella politica che in questi anni l'ha ridotta in questo modo. Di chi, da entrambe le parti, con l'agire e con l'indugiare, ha permesso che gli interessi di pochi prevalessero su quelli dell'intero Paese, sperando di tirare a campare con le televisioni in mano e con le solite toppe del breve periodo. Adesso, nell'1,5% che Monti impone ai capitali rientrati con lo scudo fiscale, viene fuori tutta la rete perversa di interessi che attanaglia l'Italia, una rete fatta di persone che non hanno paura di un'Italia declassata e spedita in un futuro di povertà. Viene fuori anche quella cultura che da anni pervade sempre più la vita pubblica italiana, secondo la quale al di fuori della legge si guadagna sempre la via più facile. Esattamente quell'idea che abbiamo il dovere di combattere, se non vogliamo che anche misure risultino del tutto inefficaci per risollevare davvero il Paese. Inizialmente, ho avuto la rabbiosa sensazione di una vergognosa elemosina. Giusto per la cronaca, le Banca d’Italia ha recentemente pubblicato uno studio (Valeria Pellegrini ed Enrico Tosti dal titolo “Alla ricerca dei capitali perduti: una stima delle attività all’estero non dichiarate dagli italiani”, nel quale si calcola che i capitali italiani depositati illegalmente all’estero ammontano attualmente tra i 124 e i 194 miliardi di euro. L'intera manovra di Monti è di 30 miliardi lordi e l'aliquota iniziale dello scudo fiscale era quel misero 5%. Aggiungiamo poi che stiamo parlando di capitali trattenuti illegalmente all'estero da parte di grandi evasori che sono anche prevalentemente "grandi" mafiosi e che provvedimenti simili in Gran Bretagna e negli Stati Uniti avevano un tasso di circa il 50%. Una sensazione, quindi, che permane, anche se con il passare delle ore sopraggiunge la consapevolezza, amara, che effettivamente il governo Monti è prigioniero di questo Parlamento, di quel Berlusconi che ha detto “va avanti finchè vogliamo”, di quell'Alfano che si vanta del mancato intervento sull'IRPEF (ma non era più equo intervenire lì rispetto all'IVA?). Per dirla in maniera brutale, Per chi sta in parlamento, cioè quelli di prima, o si raggiungono gli obiettivi della UE “come diciamo noi”, e per altro con una faccia bella pulita come quella di Monti, o tanto vale che vada sempre peggio (unica eccezione, forse, le aziende di Berlusconi).
E allora, forse, il lato positivo di questa situazione è che si mostra finalmente senza veli quella politica che sta mettendo alle corde gli italiani, quella politica che fino ad ora era stata annacquata e rimandata a suon di proclami. Si manifestano realmente gli interessi di chi purtroppo ancora è ago della bilancia. Infine, se aggiungiamo anche i numeri che non ci sono, ovvero ciò che manca alla manovra, patrimoniale, ICI per la Chiesa cattolica, taglio spese militari, taglio delle grandi opere (TAV Genova-Milano), accordi bilaterali con paradisi fiscali, giusto per dirne qualcuna, allora il quadro degli interessi che il prossimo centrosinistra sarà NECESSARIAMENTE chiamato a SMANTELLARE risulta chiaro. Risulta chiaro come la luce del sole dove si debba cambiare registro, di cosa si debba parlare, cosa bisogna scrivere nei programmi. Lo diciamo anche a Bersani, che era compiaciuto di questo 1,5%.



Rosario Coco
Resp. Naz. Scuola, Università e Cultura Giovani IDV

lunedì 28 novembre 2011

La De Gregorio sul PD. Disarmante.



Le dichiarazioni di Concita De Gregorio sabato scorso a Pisa, durante l'assemblea di TILT, pubblicate oggi dal Fatto Quotidiano, confermano ciò che si sospettava da tempo, una strategia a perdere che il partito democratico non può più permettersi. Ma, sopratutto, che l'Italia non può più permettersi. E' indecoroso, per non dire miserevole, puntare su Fini e sulla crisi economica per rafforzarsi e andare al governo con il terzo polo" - "E' questo, infatti, che la De Gregorio racconta, circa la strategia durante le scorse regionali del Lazio in cui il PD avrebbe preferito perdere per favorire la Polverini, vicina appunto a Fini. Ciò che inoltre diventa quasi meschinità da avvoltoi è la parte in cui la De Gregorio chiede "ma gli elettori?" e si vede rispondere: "ci penserà la crisi economica". Non sono disposto, insieme a tutti i giovani che militano nell'Italia dei Valori, a vedere il Paese colare a picco per colpa di una strategia che vuole un centrosinistra alleato con il terzo polo grazie agli effetti della crisi e dei giochini elettorali sulla pelle delle persone. Siamo convinti che non è quella l'alternativa ad una politica fatta di interessi particolari a discapito delle nuove generazioni, ad una politica che sul declino del Paese e sulla povertà di molti è convinta di poter mantenere il controllo dei propri affari. Siamo consapevoli, proprio come ha affermato la De Gregorio, che Berlusconi si è dimesso per colpa della situazione internazionale e non per merito dell'opposizione. O, per dirla ancora più cruda, per salvare le sue aziende. Con il governo Monti abbiamo l'opportunità di una opposizione nel merito delle questioni, che non è tuttavia possibile senza un'atteggiamento trasparente che non lasci spazio a congetture su ipotetici accordi segreti. Se non saremo capaci di costruire un'alternativa reale, che abbiamo chiesto da tempo anche con le primarie, ci ritroveremo presto incalzati nuovamente dalla retorica berlusconiana, che ha già cominciato a rifarsi sentire con la solita minestra stracotta dei comunisti. Allora bisogna farsi sentire, su precariato, diritto allo studio, patrimoniale, evasione, spese militari; oltre a questo, noi giovani abbiamo il dovere di iniziare a costruire quella sinistra moderna che ancora non esiste, ma che tuttavia nelle nostre menti sa già ciò che non deve essere e sa già che non parlerà il linguaggio di Letta, di Ichino, di D'Alema o di Renzi.

sabato 26 novembre 2011

Matrimonio e unioni civili non sono in contrapposizione
















Oggi sono stato ad una bella iniziativa di SEL sui diritti civili e le questioni LGBTI. C'è tanto lavoro da fare e difficilmente avremo risposte da Monti, tuttavia è chiaro che il riconoscimento dei diritti civili deve passare per una nuova elaborazione culturale, chiara ed alternativa, del concetto di famiglia e degli istituti giuridici esistenti. Unioni civili e matrimonio non sono in contrapposizione: in diversi paesi europei coesistono diversi istituti giuridici, che regolano in maniera diversa i diritti e doveri dei conviventi. Come abbiamo già detto aderendo allo scorso europride, tutte le coppie devono avere libero accesso a tutti gli istituti giuridici previsti dall'ordinamento, compreso il matrimonio, ma il nostro obiettivo, in pieno spirito liberale, dev'essere quello di promuovere una pluralità di soluzioni giuridiche, come avviene in diversi paesi europei.

mercoledì 23 novembre 2011

Dibattito in Sapienza con Antonio Di Pietro

Oggi ho avuto il piacere di moderare il dibattito organizzato da UniOn sulla costituzione e il diritto allo studio con Di Pietro, Granata e Canino. Dico il piacere perchè si è realizzato un confronto aperto e dinamico con i ragazzi; i "politici" erano davvero senza barriere. Bellissima introduzione inoltre di Mario Canino, docente di filosofia, che ha sottolineato le radici greche e laiche della Carta costituzionale, da Aristotele fino a Calamandrei. Di Pietro e Granata hanno poi risposto a tono ad ogni domanda, anche quelle più "scomode". Di Pietro in particolare, ha anche parlato di riforme importante per l'università, come il ruolo unico e la democrazia interna.

domenica 13 novembre 2011

Italia 1861 - Europa 2011


Quando l'Italia, nel 1861, divenne ufficialmente un Paese unito, le differenze tra usi, costumi, tradizioni, economie tra le varie regioni erano davvero profonde, si trattava realmente di stati diversi, quali infatti erano i vari soggetti politici che vennero unificati attraverso un processo storico complesso. La differenza attuale tra l'italiano e il finlandese, medio, potremmo dire, non è molto distante tra quella che c'era tra un siciliano e un piemontese nel 1861, ma anche tra un romano e un veneziano, tra un fiorentino e un pugliese. Anche a livello linguistico: gli strumenti che diffusero la lingua italiana furono la leva militare nazionale e la scuola pubblica statale; per diversi decenni giovani di nord e sud non riuscivano quasi a capirsi.

Vuoi che oggi noi, di fronte ai colossi mondiali in espansione, con armi come web, social network, una lingua globale, trasporti e tecnologie impensabili all'epoca, non riusciamo a fare l'Europa?

L'Italia la fece la politica del regno sabaudo è vero. Ma la prima di tutto chi ci credeva e senza costoro nulla si sarebbe potuto realizzare. E ai revisionisti dico, senza troppe chiacchere: meglio il nord austriaco, il centro pontificio e il sud borbonico alla deriva di chissà cosa? Cosi come adesso agli euroscettici di oggi dico: meglio l'Italia e la Spagna in default, la Germania e la Francia che finiscono per cedere la sovranità agli investitori asiatici e l'europa complessivamente uscire di scena dalla politica mondiale e dalla storia? Forse è il caso che la politica si muova...ma forse è il caso, sopratutto, che qualcuno come allora ci creda davvero..E che qualcuno che ci creda faccia politica!

martedì 1 novembre 2011

Voglio allearmi con il partito che non c'è


Antonio Di Pietro dichiara che a determinate condizioni sarebbe disposto ad appoggiare Bersani alle primarie. E tutti sono già a ricamare fiumi di parole su presunte svolte e giravolte. La verità è molto, molto più semplice, elementare direi. Si tratta di uno dei pochi personaggi politici che ancora può girare in mezzo alla gente, una persona alla quale viene ancora la pelle d'oca a vedere lo sfacelo che stiamo vivendo, come uomo, come cittadino e poi come politico; si tratta di una persona che non è disposta a vedere un minuto di più l'Italia dilaniata e che per questo, se potesse servire a placare l'attuale clima da pollaio del centrosinistra, ha valutato anche questa opzione.



Io personalmente non credo che si verificheranno le condizioni che Di Pietro ha in mente per poter percorrere questa strada e che alla fine parteciperà anch'egli come candidato.

Vorrei tuttavia concentrare il dibattito su un'altra questione. Il nuovo centrosinistra dovrà costruire giorno per giorno una propria identità, innovativa e riformista, che metta al centro i diritti delle persone e che possa fare a meno dei vari D'Alema, Violante, Ichino, Teodem & co., così come di parolai come Renzi, che francamente, riprendendo Luigi De Magistris, non mi interessano proprio.



L'elemento chiave, la vera svolta, starà nella nostra capacità di riportare al voto quella marea umana che è ormai appassionata solo al partito dell'indifferenza, il principale alleato dell'autoritarismo e della mala politica. Come giovani dell'Italia dei Valori, ma anche come parte di un movimento giovanile più ampio che sta prendendo corpo nel modo più spontaneo e naturale dalle piazze ai comitati, dobbiamo rompere quello stramaledetto muro del qualunquismo, portare gli illusi e i giovanissimi a votare, fargli capire che la parola politica non è un sinonimo di "soap opera" ma è sinonimo di lavoro, studio, pensione, reddito; se vogliamo è sinonimo di quel cantiere infinito in mano alla mafia, di quell'affitto che non riesci a pagare, di Giuliano Ferrara al posto di Enzo Biagi, dell'aggressione omofoba in giro per la strada, degli scontrini che tanti non ti fanno che tutti insieme fanno magari un ospedale o una scuola nuova, della piccola azienda di papà soffocata da un Ciarlatano che ha liberalizzato solo la truffa e i condoni.



Quella gente che dice "io non voto". Loro sono la risorsa per cambiare l'Italia.

Ai grillini dico solo questo: quel lavoro di rottura e di informazione che avete fatto per tanti anni è stato prezioso. Ma adesso lo state rendendo vano. Non mi riferisco principalmente all'esito elettorale in Piemonte e Molise, le cui responsabilità sono complesse, ma al messaggio politico che state lanciando. C'è chi fa opposizione in questo Paese, non possiamo fare tabula rasa, il qualunquismo è pericoloso.



La rete sta cambiando il mondo, anzi, dirò di più, sta forse realizzando storicamente il concetto stesso di democrazia. Tuttavia, così come ogni invenzione storica che ha riguardato la comunicazione e la condivisione di esperienze, ricordiamoci che parliamo di strumenti. Lutero ha usato la stampa per diffondere idee ancora medioevali; ha dato l'opportunità di comprenderle personalmente senza il filtro del prete e del Papa, ma sempre della colpa e del peccato si parlava. Allo stesso modo, qualcuno oggi da l'illusione della partecipazione attraverso un "mi piace"; si tratta di potentissimi nuovi canali, che mutano anche l'organizzazione del tempo e della vita, ma restano porte che vanno aperte, link che vanno cliccati, pagine che vanno lette criticamente, contenuti che vanno creati e discussi.



La democrazia ha bisogno del confronto vero, umano, condiviso, delle assemblee, delle mediazioni, delle decisioni, dell'elaborazione dei contenuti, delle strutture. La politica deve ridurre enormemente i propri costi e i propri privilegi, scendere dal piedistallo e ritornare nelle strade, su questo siamo d'accordo. La politica è una missione, siamo d'accordo anche qui, ma, proprio per questo motivo, il politico non è l'ultimo dipendente pubblico arrivato, non è una figura che nasce dall'oggi al domani; merita rispetto tanto il cittadino con l'elmetto, quanto il giovane che si impegna per il cambiamento all'interno dei movimenti e dei partiti, quanto l'esperienza di chi è già all'interno delle istituzioni, ma non è uguale agli altri.



Detto questo, tornando alla nostra Italia, il vero obiettivo dev'essere la costruzione di un'alternativa che possa fare a meno in tutte le sedi di quel guazzabuglio che si sta addensando intorno al terzo polo, che rischia di essere l'ago della bilancia e di impedire come già è successo un cambiamento vero.



Per realizzare tutto questo preferisco allearmi con il partito che non c'è. La politica fatta col pallottoliere non paga. Napoli e Milano, quando nessuno ci credeva, lo hanno dimostrato.



Rosario Coco

Resp. Naz. Scuola Università e Cultura Giovani IDV

venerdì 28 ottobre 2011

Europa e Lavoro - Un grande evento organizzato da Gianni Vattimo a Torino - STREAMING





Il 28 e 29 ottobre si svolge a Torino una grande manifestazione europea promossa da Gianni Vattimo in collaborazione con l'ALDE,
"Il mercato del lavoro nella strategia europea 2020" . Si tratta di un occasione di incontro e di confronto tra professionisti e personalità della politica di livello internazionale per approfondire ed elaborare un'alternativa che possa risolvere la crisi economica che attanaglia in questo momento il mondo occidentale, ma anche per ripensare criticamente il concetto stesso di lavoro. Saranno presenti anche Antonio di Pietro e Maurizio Zipponi.
Su giovanidivalore.it è possibile seguire la diretta in streming dell'evento

Rosario Coco
Resp. Naz. Scuola, Università e Cultura Giovani IDV

sabato 15 ottobre 2011

IO, ANCORA PIU' INDIGNATO! LA VIOLENZA A CASA!














Io sono ancora più indignato, adesso, e sto dalla parte di chi è sceso in piazza, così come dalla parte di chi ha fatto il proprio dovere. I sindacati di polizia accusano Maroni per la gestione della manifestazione. Ma lo possiamo dire oppure no che il Governo ha interesse a speculare sui disordini, per allontanare l'attenzione dal fatto che non ha più ragione di esistere? Per rispondere a Cicchitto, che dice che i partiti d'opposizione devono dissociarsi da questa follia, io credo che non ci sia nulla da cui sfilarsi, perchè si è trattato di una grande manifestazione di democrazia! I feriti, i danni, gli scontri sono fatti inaccetabili che vanno condannati senza indugio, ma sono tutt'altro, una cosa diversa, che non c'entra nulla con le ragioni profonde del movimento. Chi era in piazza a Roma sta dalla parte di più di un milione di persone pacifiche e indignate, dei milioni di cittadini in tutto il mondo che hanno finalmente alzato la testa e dalla parte di chi chiede un cambiamento epocale fatto di democrazia e partecipazione!

Rosario Coco
cittadino del mondo indignato

http://www.ilmessaggero.it/articolo_app.php?id=41848&sez=HOME_ECONOMIA&npl=N&desc_sez

lunedì 26 settembre 2011

FERRARA HA ROTTO IL MIO RELAX. E NON SOLO QUELLO.

















Volevo rilassarmi...ma purtroppo mi è caduto l'occhio sul video di Ferrara e del suo Radio Londra. Desertificazione celebrale di massa; è terrificante vedere questo leccapiedi che pontifica su Raiuno infilando una dopo l'altra un record incredibile di indecenze. Berlusconi? vizi privati. E quando mai, ci mancherebbe, ha solo messo in mezzo un capo di Stato, messo se stesso e il Paese sotto ricatto, usato le donne come tangenti, riempito il Parlamento e le istituzioni di un esercito di escort più o meno di professione...tutte cose che riguardano la sfera privata, certo.

Ma qualcuno te l'ha insegnato cos'è il pubblico e il privato? o a furia di studiare il copione ci credi anche tu?e se ti denuncio io per turbamento della quiete privata, dopo questa valanga di idiozie?

Poi ecco che Giulianone tira fuori l'artiglieria pesante d'epoca tardo medievale direi, da caccia alle streghe del '300, oppure, se vogliamo, le cannonate del cattolicesimo seicentesco da inquisizione, quello che distrusse l'America precolombiana, per intenderci.

Ma di cosa parli? a chi vuoi fare paura? a quei poveri cittadini che ne sanno meno di te solo perchè non hanno avuto la possibilità di studiare certe cose e non si informano a sufficienza perchè tornano dal lavoro e sentono Fede, Minzolini e Bertone?

lo sai benissimo quanto e cosa possono fare i preservativi in termini di educazione sessuale e prevenzione e che sei tu a banalizzare il sesso riducendolo a una funzione biologica, non chi ne difende la LIBERTA' !
lo sai benissimo che una donna affronta sempre e comunque un trauma se decide di abortire e che la decisione spetta a lei e soltanto a lei, non alle leggi della casta clericale!
Lo sai benissimo che la diagnosi preimpianto non serve a fabricare bambini con lo stampino, ma ad evitare malattie gravissime ed ereditarie!
lo sai benissimo che il buon senso indica chiaramente la differenza tra la scelta di un embrione gravemente malato o uno maschio piuttosto che femmina!
lo sai benissimo che tutto, dicesi tutto, il mondo dibatte ormai in modo serio di medicina genetica e progetto genoma, tutte cose di cui qui non si conosce quasi nulla per colpa di quelli come te!

Ferrara, tu e tutti gli altri! dovete finirla! quanto pensate ancora di poter tenere questo Paese nel medioevo per spolpare fino all'ultimo l'osso di quella politica fatta di paura, ignoranza e ipocrisia?

Tu che hai, o avevi, un briciolo di cultura, vergognati piuttosto del fatto che una delle tante "signorine" sta adesso al ministero dell'Istruzione, che delira su tunnel immaginifici di 730 km e chiede cos'è la "grattachecca" agli aspiranti medici, vergognati di come stai contribuendo a ridurre il Paese! tu e l'amico Sgarbi che parlate di Arte e Cultura, andate a vedere come crollano le scuole e i monumenti nel Paese di Leopardi e Michelangelo, andate a vedere come i nostri ricercatori fuggono o muoiono di tumore come alla Facoltà di farmacia di Catania, andate a vedere cosa imparano i bambini nelle classi pollaio!
massa di vipere vendute e vacche da parlamento! e ciascuno dei due si scelga casualmente la metafora!

http://tv.repubblica.it/spettacoli-e-cultura/ferrara-risibile-la-crociata-moralistica-contro-berlusconi/76844?video=&ref=HREA-1

domenica 11 settembre 2011

Noi Giovani e la protesta globale. Il 15 ottobre
















Nella nostra piccola Italia, restiamo ormai troppo spesso invischiati in un vortice di problemi che ci relega purtroppo ad un immeritato provincialismo, immeritato specie se consideriamo la storia del nostro Paese e le energie intellettuali di tanti italiani in giro per il mondo.
Abbiamo un Premier che parla ancora di comunismo e di toghe rosse e che perde tempo a farsi ricattare da strani faccendieri, abbiamo ancora un Papa che pontifica sulla vita e la famiglia ignorando la scienza e i diritti, abbiamo guarda caso la più vecchia classe politica d'Europa.
Tuttavia, sembra che la crisi finanziaria abbia funzionato da megafono e che le scottanti questioni internazionali stiano improvvisamente trovando il loro spazio nell'agenda politica italiana. In modo traumatico, certo, perchè ci stiamo accorgendo sempre più di essere un Paese schiavo dell'incapacità di crescere e quindi dell'impossibilità di risanare il suo enorme debito, dopo che per troppi anni nulla è stato fatto per creare realmente lavoro e sviluppo e smontare l'economia sommersa che ci soffoca.


Oltre a questo, ci accorgiamo che la situazione è più complessa del previsto anche i nostri vicini europei sono costretti ad emanare misure restrittive e di contenimento, insieme agli Stati Uniti, che hanno dovuto fronteggiare il primo declassamento dei titoli nella loro storia ed imbastire una manovra cruciale per far fronte al proprio debito. Nel frattempo ci troviamo di fronte ad un disagio diffuso a livello globale, che si intreccia certamente con i casi specifici, vedi i Paesi nordafricani, ma che certamente ha in comune la sensazione di essere di fronte ad una politica vecchia e fallimentare, dove non vengono realmente fatti gli interessi dei popoli sovrani. Questo messaggio si sta diffondendo come mai prima in rete e sui social network, generando una condivisione di idee e di pensieri assolutamente senza precedenti per ampiezza e cosmopolitismo.

Per il 15 ottobre, la pagina Democracia Real YA, creata dagli indignados spagnoli del 15M, ha lanciato una giornata di manifestazione mondiale pacifica contro la politica delle banche, delle corporazioni e della corruzione.
Si tratta del maturare di un sentimento globale di rinnovamento che affonda le proprie radici nella primavera araba e nelle crisi economiche degli ultimi anni.

Di fronte a questo scenario, la nostra generazione ha un compito decisamente arduo. Liberarsi al più presto del berlusconismo, un virus che rischia di infettare anche l'Europa, e riscrivere le regole del gioco, tirando fuori dal baratro un Paese in cui evasione e corruzione la fanno da padroni.
Nel mentre, è tuttavia necessario affacciarsi sin da subito allo scenario internazionale. La politica nazionale di un singolo Stato, per quanto improntata ai migliori propositi, non sembra più sufficiente a garantire equità sociale e sviluppo se non si mostra capace di rompere i ponti con un potere economico che tende a sfuggire di mano persino alle organizzazioni internazionali.

Come affrontare tutto questo? Innanzitutto, bisognerà interpretare al meglio le cause e le anime di questo movimento globale, che si presenta poliedrico sotto tutti gli aspetti, metodi, popoli, mezzi, fatti. A fronte di un comune e legittimo disagio, diverse sono le sensibilità politiche che lo compongono. Tra le idee comuni l'obiettivo di uno sviluppo globale fondato sull'economia verde, la sostenibilità ambientale e le energie rinnovabili, che inverta il processo di inquinamento e sfruttamento del pianeta. Ma sopratutto, l'idea di una politica che abbia come priorità l'interesse dei cittadini del mondo. Come?

Dalle ali più “estremiste” a quelle più “moderate” sappiamo bene che sono presenti coloro che rifiutano l'intero sistema e che brucerebbero le banche l'indomani, insieme a coloro che magari risultano più moderati solo perchè meno convinti. Le ragioni di ogni atteggiamento, che non sempre possono essere giustificazioni, vanno comprese; un conto è ciò che viene fatto, un conto è perchè viene fatto. Tuttavia, credo che la maggior parte del movimento sia determinata nel chiedere l'abolizione dei privilegi della classe politica, nuovi strumenti di partecipazione diretta dei cittadini, nuovi strumenti di trasparenza negli affari pubblici, una distribuzione del costo della crisi che coinvolga grandi patrimoni, banche e multinazionali e, sopratutto, la costruzione di organismi internazionali in grado di anteporre gli interessi delle comunità a quelli corporativi. In breve, non contro banche e multinazionali tout court, ma contro banche e multinazionali che diventano fini a se stesse e devono sopravvivere al di là delle crisi sulle spalle dei cittadini. Qualcuno obietterà che non c'è nulla da fare e che il sistema è questo, che le banche vivono della creazione del debito e che la politica è schiava.

Il mio parere è che abbiamo bisogno di ricondurre questo meccanismo sotto controllo, compreso quello della famosa “creazione della moneta”, che è ormai distante anni luce dall'economia reale. Per farlo occorreranno tempi molto lunghi, perchè si tratta di invertire un processo nato quasi un secolo fa, quando, non a caso, tra le due guerre mondiali, l'economia iniziò a prendere il sopravvento sulla politica. Dal un punto di vista nazionale, intendo delle nazioni, occorre puntare sulle risorse locali, sull'innovazione, sull'economia reale e sul rilancio del primario; mi viene in mente, nel concreto, l'economia fondata sulla canapa, una tecnologia accantonata negli anni '30 per forti interessi nell'ambito del settore petrolchimico, che potrebbe portare alla produzione di svariati prodotti, da surrogati della plastica a carburanti, da mangimi a medicinali. Da un punto di vista internazionale, abbiamo invece bisogno di un sistema politico mondiale molto più forte di quello attuale, che stabilisca delle nuove “regole del gioco”, anche per i mercati internazionali.

Un dato è certo, abbiamo un sistema produttivo che può e deve fare di più per il benessere globale, basta considerare la distribuzione mondiale di cibo, acqua e ricchezza. Ma non bisogna fare l'errore di pensare di poter eliminare tutte le infrastrutture intermedie, pubbliche o private, che gestiscono le attività produttive, perchè il non considerare l'importanza e la difficoltà della gestione e dell'organizzazione di risorse e produzione è il principale errore teorico-propositivo dell'estremismo di sinistra. E' invece una questione di limiti e di controllo. Da questo punto di vista, i nostri padri costituenti avevano visto bene:

“L'iniziativa economica privata è libera. Non può svolgersi in contrasto con l'utilità sociale o in modo da recare danno alla sicurezza, alla libertà, alla dignità umana. La legge determina i programmi e i controlli opportuni perché l'attività economica pubblica e privata possa essere indirizzata e coordinata a fini sociali” (art. 41).

E' impossibile immaginare ed attuare concretamente questo principio a livello globale?

Se un secolo fa il livello della tecnologia portava a pensare come fisiologica e necessaria una contrapposizione di classe, per una questione di limiti strutturali del sistema, abbiamo adesso un potenziale di produttività tale da poter effettivamente garantire un benessere diffuso, fermo restando che il benessere materiale va sempre associato alla libertà personale, elementi che non è detto sempre coincidano.

E' chiaro che possono sembrare discorsi al limite tra sogno e banalità, ma di fronte ad un movimento di carattere cosmopolita, è necessario che prendano avvio anche queste riflessioni, specialmente se pensiamo al fatto che questo movimento dovrà presto interloquire con i Paesi del BRIC (Brasile, Russia, India, China), grandi potenze in espansione molto diverse tra loro che tendono a riprodurre i difetti di quel capitalismo attualmente sotto accusa e che non hanno ancora sviluppato una piena sensibilità per i diritti dell'uomo. Insomma, è un movimento che nasce e che mette in comune culture diverse, e che si proietta su uno scenario mondiale in cui America ed Europa, “l'occidente” stanno lentamente cedendo il passo al BRIC e alla riscossa dei Paesi arabi.

Un palcoscenico dove, politicamente, le vecchie ideologie sono pressochè scomparse, e a riempire la scena sono ormai le diverse forme di fondamentalismo religioso, di autoritarismo e di una cultura globale figlia dell'occidente che oscilla tra neoliberismo e cosmopolitismo solidale. Forse il mattone su cui costruire è proprio quest'ultimo. Ed essere presenti il 15 ottobre, nel proprio angolo del globo, ma con i grandi occhi e orecchi del terzo millennio, potrebbe essere un primo piccolo passo.



Rosario Coco
Resp. Naz. Scuola, Università e Cultura Giovani IDV
www.giovanidivalore.it

venerdì 2 settembre 2011

Ti condanno all'oblio e al silenzio; lo dice Avvenire

Da giovanidivalore.it 9-08-2010



















Fa bene Paola Concia a querelare Avvenire. Secondo loro un'unione omosessuale dovrebbe avvenire nel silenzio e nell'ombra e solo le unioni eterosessuali hanno diritto ad un riconoscimento pubblico, in quanto vi è una "fertile progettuallità". Sarebbero "ontologicamente" diverse. Insomma nascondetevi e soffrite, come al solito.

Cari barbari, perchè questo è l'epiteto per chi condanna alla sofferenza, potete certamente pensarla come volete, e noi ci batteremo fino alla morte per permettervi di farlo (Voltaire), ma visto che pretendete di imporre il vostro punto di vista, come sempre, provo ad entrare nel merito e a fornire qualche spunto di riflessione, che vada al di là del discorso politico.

Vi assicuro che la vostra "ontologia", semmai ne avessimo bisogno, questa scienza dell'essere che vi scomodate a disturbare e che ha avuto ben altro da dire in filosofia, è ampiamente superata. Ed era superata anche nell'età antica, prima di voi, dove sull'argomento parlavano uomini per fortuna molto più illuminati. Se la fertile progettualità è per voi solo la capacità procreativa, dal punto di vista meramente biologico, dovete semplicemente imparare cosa può generare la condivisione di sentimenti, idee e pensieri che possono sviluppare due persone nell'ambito di una relazione, sia nel privato che nel sociale, come era ampiamente chiaro al Platone che scriveva il Simposio e che usava in questo senso la parola "eros". Inoltre, pensate veramente che riconoscere pubblicamente l'amore omosessuale possa nuocere alle unioni eterosessuali?



Ma pensate davvero che adesso diventino tutti gay, lesbiche e trans oppure vi rifiutate di capire che li avete nascosti ed umiliati per secoli, specie dentro parrocchie e conventi? E' questo il problema delle "famiglie tradizionali" oppure è la politica dissennata che da 20 anni sostenete in maniera più o meno velata che le ha ridotte in ginocchio? o sarà forse l'idea che le persone dopo migliaia di anni possano finalmente essere consapevoli di se stesse, vivere la propria vita senza dogmi e condizionamenti di sorta, senza nessuno che si appropri della propria intimità per creare potere; forse è questo che vi spaventa? La società umana ha bisogno tanto della relazionalità eterosessuale quanto di quella omosessuale. Ridurre la progettualità e la fecondità alla mera riproduzione è qualcosa di degradante anche per le coppie eterosessuali, perchè serve molto altro per tirar su un figlio che la semplice procreazione. Anzi, visto che avete l'ossessione biblica di distinguere l'uomo dall'animale, domandatevi se forse non sia proprio in questo modo che si appiattisce la ricchezza delle capacità umane rispetto al mondo animale, anzichè discutendo in modo maniacale dei famigerati rapporti "contro natura".



In altre parole, fermo restando che ognuno fa quello che vuole, mi sembra molto grave il fatto che dovremmo essere superiori agli animali solo per una mera questione biologica che riguarda il presunto uso "corretto" dei genitali. Chi sono qui i materialisti? Con permesso, ma siamo stati creati a "immagine e somiglianza" di Dio per eseguire semplicemente le stesse funzioni riproduttive dei bovini o degli ovini? Per carità, nel paradiso terrestre c'erano solo Adamo ed Eva, un uomo e una donna, ma sbaglio o prima del peccato originale era tutto perfetto e non c'era bisogno neanche di procreare? Ironizzando, forse se Eva non avesse preso quella maledetta mela Dio avrebbe mandato qualcun altro, uomo o donna, magari per alleviare la noia, senza che ci fosse bisogno di "partorire con dolore".



Seriamente, abbiate pazienza, ontologia e natura sono due categorie che dovete aggiornare. Vi trovate anniluce distanti da una società che sta cambiando, o meglio, che si sta liberando di certe zavorre storiche, come ha spiegato più volte per il movimento LGBTI il presidente di Arcigay Paolo Patanè(http://www.youtube.com/watch?v=G2HnMVvjpxQ). Siete semplicemente dei vecchi e degli impostori, impostori di un messaggio, quello del vangelo cristiano, che se alle origini fosse stato simile ai vostri sermoni non sarebbe stato minimamente preso in considerazione; solo per questo, proprio perchè totalmente estraneo a voi, questo messaggio ha avuto un posto, nel bene e nel male, nella storia del mondo.



http://www.repubblica.it/politica/2011/08/07/news/avvenire_contro_il_mat...



Rosario Coco

Resp. nazionale Scuola, Università e Cultura Giovani IDV

mercoledì 20 luglio 2011

Legge contro l'omofobia, il nostro Paese spinto indietro nella storia


La legge sull'omofobia che verrà discussa oggi pomeriggio alla camera, è un fondamentale tassello di civiltà che manca al nostro Paese e che ci separa sempre di più dal resto del mondo. L'ostruzionismo è stato a dir poco vergognoso, specie nell'ultimo periodo, con oltre due mesi di rinvii volti a far slittare la questione in un periodo quanto più “estivo” e lontano dalla grande manifestazione dell'Europride di Roma. Oltre a tutto questo, si registra il tentativo meschino di affossare il testo con delle pregiudiziali di incostituzionalità, quando invece si tratta di una legge che non fa altro che difendere e attuare pienamente l'art. 2 della Costituzione, per cui ogni individuo ha il diritto inviolabile prima di tutto ad esercitare la propria personalità, sia come singolo che nelle formazioni sociali. La legge contro l'omofobia è un atto di civiltà che apre per milioni di persone la possibilità di essere semplicemente se stesse, alla luce del sole, senza il rischio di essere discriminate e subire violenze, come purtroppo sempre più spesso accade. Ma si tratta di un provvedimento che ha un ulteriore significato, quello di rispondere ad una consapevolezza che si sta ormai diffondendo a livello mondiale e che stenta ad essere recepita nel nostro Paese. La tradizione dei diritti umani, fiorita durante la grande stagione dell'illuminismo, è andata incontro negli ultimi due secoli ad un processo di attualizzazione e integrazione. Nel primo caso si tratta di un lento passaggio dalla teoria alla prassi, un processo purtroppo ancora in corso, se pensiamo a quanti individui nel mondo vedono ancora negati i propri diritti. Nel secondo caso, si tratta invece di un processo di approfondimento di questi diritti, l'individuazione di quelle caratteristiche attraverso le quali avviene il “pieno sviluppo della persona umana”, come si esprime la nostra costituzione all'art. 3. Un grande passaggio storico, in merito, è stata l'emancipazione della figura femminile, che ha segnato nella storia umana un fatto epocale senza precedenti, in concomitanza con il suffragio universale. Da alcuni decenni a questa parte il mondo si trova di fronte ad una grande riflessione culturale, che possiamo paragonare per portata storica proprio al riscatto delle donne: la conquista di dignità e rispetto da parte della comunità LGBTI. Si tratta di un elemento che ha un valore enorme, in quanto attualizza e allo stesso tempo arricchisce, nel senso che si diceva prima, la cultura dei diritti umani e la tradizione politica del mondo occidentale e non solo. La dignità delle persone LGBTI passa innanzitutto per la tutela giuridica, specie nel contesto di un'ondata di neoconservatorismo che sta investendo il nostro Paese e che sta dando vita ad episodi sempre più preoccupanti. L'Italia è rimasta di gran lunga indietro su questo tema, in preda ad una retorica e ad una ideologia clericale volta solo a creare un consenso di ignoranza e pregiudizio. Rischiamo, inoltre, di retrocedere sempre più nella capacità di garantire la sicurezza e la serenità dei nostri cittadini. I Giovani IDV si batteranno come sempre affinchè il Governo italiano possa al più presto emanare non solo questo genere di provvedimento, ma riconoscere al più presto la pari dignità giuridica e sociale alle persone LGBTI. E' una questione elementare di civiltà.

Rosario Coco
Resp. Nazionale Scuola, Università e Cultura Giovani IDV

venerdì 15 luglio 2011

Biotestamento, barbarie legislativa














La legge sul testamento biologico approvata alla camera è un vero e proprio obbrobrio legislativo statalista e apertamente incostituzionale, che ignora le sentenze della magistratura e impone ai cittadini persino come morire. La cosa ancora più grave è che il nostro Paese viene drammaticamente escluso in tal modo dal dibattito internazionale sulle nuove frontiere della Bioetica, come gli studi sul genoma umano e la medicina personalizzata. Le nostre migliori intelligenze si devono purtroppo impegnare a ribadire le assurdità di questa legge.
Si tratta di un provvedimento contro la libertà individuale, contro il consenso informato e contro la possibilità di rifiutare le cure. Contro il parere dell'intera comunità scientifica internazionale l'idroalimentazione artificiale è considerata un trattamento di base e non una terapia, e viene esclusa la possibilità di rifiutarla da parte del paziente. Le direttive anticipate (DAT), inoltre, non saranno vincolanti per il medico, che potrà anche non tenerne conto. Ultimo colpo di coda, una emendamento del PDL che restringe in modo ulteriore il campo di applicazione delle DAT, stabilendo che si possano applicare solo a pazienti in stato vegetativo, a prescindere dalle condizioni di incoscienza e di prognosi irreversibile.
Insomma, fino a quando siamo coscienti, abbiamo determinati diritti, quando non lo siamo più, anche di fronte all'irreversibilità della malattia, la nostra libertà di scelta non vale più. Una vera e propria truffa, in cui si parla di biotestamento quando invece si vuole impedire al cittadino di scegliere, in nome di una propaganda ideologica vergognosa, che non ha riscontro in nessun Paese democratico. I Giovani IDV, che hanno già lanciato la campagna "sulla mia vita scelgo io", continueranno a combattere questa politica liberticida fondata sulla paura e sull'ignoranza e ci attiveremo sopratutto sul fronte dell'informazione e della sensibilizzazione dell'opinione pubblica.

scarica l'opuscolo sul testamento biologico di "Bioetica in Campo"

Rosario Coco

Resp. Nazionale Scuola e Università Giovani IDV

venerdì 8 luglio 2011

World Economics Associations: economie a confronto









Il 16 maggio è stata fondata una nuova associazione mondiale, la World Economics Association, che si propone di promuovere il dibattito e il confronto fra la pluralità dei metodi e degli approcci alla scienza dell'Economia. Come spiega molto bene dal blog del fatto quotidiano Francesco Sylos Labini, il dibattito sulla natura dell'economia è del tutto aperto, così come la questione circa lo status scientifico della materia, se possa essere assimilata ad una scienza “dura”, alla stregua della fisica, oppure se debba trattarsi di una scienza falsificabile, legata indissolubilmente alle scelte umane.

In un contesto in cui l'economia mondiale sta mutando criticamente la propria fisionomia e il proprio baricentro e in cui le differenze in termini di ricchezza e diritti tra le varie aree del pianeta e tra le fasce sociali aumentano in maniera sempre più netta, portare avanti una riflessione sui fondamenti e sugli obiettivi della scienza economica è sicuramente di fondamentale importanza. Bisogna ricordare, che l'economia, come scienza, nasce alla fine del '700 con l'opera di Adam Smith, il quale, al di là dell'impostazione classico-liberale, ampiamente storicizzata, partiva da un intento di carattere etico, promuovere la “ricchezza della nazioni” contro la povertà e l'arretratezza delle strutture sociali.

sabato 25 giugno 2011

New York chiama Italia: diritti e uguaglianza subito

















Ironia della sorte, è un governatore dal nome italiano, Andrew Cuomo, a capo dell'amministrazione che ha appena approvato i matrimoni omosessuali nello stato di New York, mentre l'Italia arranca ancora sulla legge contro l'omofobia, la più elementare forma di tutela che esista, slittata a metà luglio e con tutte le probabilità di essere stroncata dalle pregiudiziali di incostituzionalità. E' questo il paradosso di un Paese al contrario e si tratta solamente della punta dell'Iceberg di un sistema dove tutto è interconnesso e nulla avviene per caso. Dall'indifferenza per i diritti LGBTI, alla retorica oscurantista, dagli slogan omofobi al protrarsi di una razza politica fondata sul potere di lobby che maturano il proprio consenso sull'ignoranza e sulla pura demagogia. Dalla negazione dei diritti civili alla negazione di un Paese civile, ovvero di un Paese governato da una maggioranza realmente capace di fare gli interessi di tutti e non di pochi. E' tutto strettamente legato. Così come la questione dei diritti civili, per noi, è legata ad una questione più ampia, di carattere culturale, che riguarda la reale diffusione dei valori del rispetto e della valorizzazione delle persona, strumenti imprescindibili anche per il rilancio di una nuova stagione di formazione ed etica pubblica. Quel vento di cambiamento giunto con le amministrativa sta però iniziando a farsi sentire. Per la prima volta, infatti, il pride di Milano ha avuto, con Pisapia, il patrocinio del Comune. L'Italia dei Valori e i Giovani IDV hanno testimoniato sino in fondo la sua adesione alla causa LGBTI, partecipando con un proprio carro alla big parade di Europride Roma 2011 lo scorso 11 giugno. Per noi si è trattato, infatti, di qualcosa che va al di là della rivendicazione dei diritti e si inserisce in un battaglia di laicità, libertà, l'uguaglianza, cultura ed espressione artistica.

Rosario Coco

Resp. Nazionale Scuola e Università Giovani IDV

venerdì 17 giugno 2011

Tasse universitarie: botta e risposta tra Francesco Sylos Labini e Andrea Ichino



Riporto l'articolo apparso su www.studentiunion.it

La proposta di Pietro Ichino sull’aumento delle tasse universitarie (l’adeguamento al sistema britannico) ha suscitato un botta e risposta tra Andrea Ichino e Francesco Sylos Labini, apparso su www.scienzainrete.it. Quest’ultimo ha spiegato come una serie di falsi miti e cattive informazioni sull’Università italiana abbia dato vita a determinate posizioni all’interno del centrosinistra, le quali sono ampiamente discutibili e non sembrano andare in alcun modo a favore dell’istruzione pubblica e del diritto allo studio, se non addirittura nella direzione opposta. Riportiamo qui i tre articoli che potete trovare ai seguenti link

http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/tasse-universitarie-fatti-miti-e-ideologia

http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/tasse-ununiversita-piu-equa-risposta-sylos-labini

http://www.scienzainrete.it/contenuto/articolo/tasse-universitarie-risposta-ichino

Tasse universitarie: fatti, miti e ideologia (Sylos Labini)

7 giugno 2011

La discussione sull’ammontare delle tasse universitarie tocca vari punti politici e strategici di primo piano, dal ruolo dello Stato e dell’intervento pubblico, alla missione stessa dell’università; per questo è necessario che ci sia un dibattito approfondito su questo argomento. Andrea Ichino ha recentemente riportato i punti salienti di un’interrogazione parlamentare (primo firmatario Pietro Ichino – Partito Democratico) in cui si propone di aumentare le tasse universitarie ed introdurre un sistema di prestiti sul modello recentemente adottato in Inghilterra. Secondo i proponenti, le ragioni a favore dell’aumento delle tasse universitarie sono: (i) maggiori tasse implicano maggiore qualità e (ii) maggiori tasse con prestiti d’onore implicano una maggiore giustizia sociale. Prima entrare nell’analisi del merito della proposta è necessario fare chiarezza su alcune delle assunzioni su cui si basa; nelle parole di Ichino: «dare ai poveri un’università gratis ma di pessima qualità è una truffa».

(1) L’università italiana non è gratuita. Nel rapporto dell’OCSE “Education at a Glance 2010” a pagina 244 troviamo un confronto tra le tasse universitarie di diversi paesi. In particolare si nota che “Tra i paesi dell’Europa a 19 per i quali i dati sono disponibili, solo l’Italia, l’Olanda, il Portogallo e l’Inghilterra hanno tasse annuali al di sopra di 1100 dollari per studente a tempo pieno”. Come illustrato in Figura 1, tra le 14 nazioni considerate nel biennio 2006/07, l’Italia si colloca sesta come tasse universitarie, ma ultima come percentuale di studenti beneficiari di contributi per diritto allo studio. Si noti inoltre che il fondo integrativo statale per le borse di studio è recentemente passato da 246 a 76 milioni (-69%, un taglio enorme) equivalente al taglio di 45.000 borse su 150.000 erogate (che già coprivano solo l’82.5% degli aventi diritto). Dunque mentre le rette in Italia sono paragonabili, se non addirittura più alte, a quelle d’altri paesi europei, gli studenti meno abbienti non ricevono un aiuto rilevante a causa delle carenze strutturali di una politica per il diritto allo studio che dovrebbe essere lo strumento per rendere il sistema socialmente più equo, come avviene in altri paesi europei.



(2) L’Università italiana non è di pessima qualità. La ricerca italiana si colloca al settimo posto al mondo per volume totale di citazioni. Anche considerando il volume totale di pubblicazioni o l’H-index globale l’Italia si posiziona sempre tra le prime dieci posizioni. Considerando che l’investimento in ricerca e sviluppo, sia in termini assoluti che come percentuale del PIL, è minore dei paesi che ci precedono (Francia, Inghilterra oltre che Stati Uniti) possiamo concludere che l’efficienza del sistema universitario e della ricerca italiano è discreto (il che non significa che non sia improrogabile intervenire per migliorarlo). Questa situazione è spesso chiamata “paradosso italiano”. D’altra parte, per interpretare correttamente l’informazione contenuta nelle classifiche internazionali degli atenei, spesso citate a dimostrazione della mediocrità del sistema universitario italiano, e per identificare le sue criticità, è necessario: (i) considerare separatamente i diversi indicatori in base ai quali queste sono costruite, (ii) considerare anche le classifiche scorporate in base ai diversi campi disciplinari e (iii) conteggiare degli indicatori globali come ad esempio il numero di atenei di ogni paese inclusi nelle prime 500 posizioni. Uno studio dettagliato si trova nel libro di Marino Regini e collaboratori (Donzelli, 2009) in cui si conclude che “il vero svantaggio delle università italiane non risiede nella qualità della ricerca quanto nella bassa internazionalizzazione dei loro studenti e docenti”.

(i) Tasse più alte equivale a maggiore qualità? Chi scrive è convinto che la qualità di un ateneo non può essere semplicemente misurata dal ranking nelle classifiche internazionali. Tuttavia se seguiamo questa maniera di valutazione, troppo spesso superficialmente usata, troviamo che Italia le università in cui le rette sono più alte, la Bocconi e la Luiss, non compaiono tra le prime 500 posizioni in nessuna classifica internazionale, a differenza di un discreto numero università statali, in cui le rette sono notevolmente più basse. Inoltre, guardando al caso del Regno Unito, nessuno studio dimostra che la qualità dell’insegnamento e della ricerca siano aumentate dal 1998 (anno in cui sono state introdotte le tasse universitarie) ad oggi proporzionalmente alle tasse universitarie. Dunque, non è vero che le università pubbliche italiane siano quasi gratuite, che la qualità sia infima e che maggiori tasse comportino maggiore qualità. Consideriamo ora l’altro argomento che, secondo gli autori, giustificherebbe la proposta dell’innalzamento delle tasse e dei prestiti d’onore, quello della giustizia sociale, ovvero evitare che:

(ii) “Siano i poveri a pagare l’università dei ricchi”. In pratica gli autori della proposta vorrebbero evitare che qualcuno (i poveri) paghi per qualcosa di cui non usufruisce direttamente ma che anzi va a vantaggio di altri (i ricchi). Questo, ad esempio, già avviene con la sanità quando si pagano le tasse ma si gode di buona salute, condizione che però non dipende dal censo. D’altra parte, secondo gli autori, l’istruzione va vista come un investimento personale finalizzato all’incremento del reddito a vantaggio del singolo e non della collettività; per questo motivo sarebbe socialmente giusto che ognuno paghi di tasca propria, in particolare perché chi si avvantaggia maggiormente dell’istruzione proviene generalmente da una famiglia più abbiente: discutiamo ora questo aspetto della proposta. La premessa del ragionamento di Ichino è puramente politica:

«E oggi l’Erario non può destinare somme maggiori agli atenei, neanche se tagliasse, come sarebbe auspicabile, altri sprechi nella spesa pubblica o recuperasse evasione fiscale.»

Questa affermazione non è argomentata, e infatti non è argomentabile in alcun modo, piuttosto è una convinzione politica e ideologica dell’autore che è del tutto lecito non condividere: ad esempio, chi scrive pensa che i soldi pubblici possano essere spesi meglio di quanto ha fatto l’attuale governo, sia per quantità che per qualità dell’investimento nell’università e nella ricerca, così come è realisticamente possibile fare una lotta all’evasione più efficace, ecc. Inoltre bisogna ricordare che l’Italia è sempre nelle ultime posizioni delle statistiche internazionali per spesa nella formazione universitaria e nulla vieta di rendere questa spesa dello stesso ordine, ad esempio, di un paese come la Francia. Ma lasciamo da parte queste considerazioni, che ricadono nel campo della volontà e della strategia politica, e passiamo ora all’analisi della proposta, che investe temi fondamentali come la tassazione e la giustizia sociale.

Attualmente, per legge, le tasse universitarie a carico degli studenti non possono superare il 20% del Fondo di Finanziamento Ordinario, il cui resto lo pagano tutti gli altri cittadini, anche chi l’università non la fa, tramite la fiscalità generale. L’argomento secondo il quale in un sistema pubblico le famiglie a basso reddito pagano l’università ai ricchi non considera il fatto che le aliquote fiscali crescono con il reddito, e andrebbe esteso a tutte le attività finanziate dallo Stato ma fruite in modo differenziato a seconda del reddito. In teoria, l’imposta progressiva sul reddito insieme con la tassa di successione dovrebbero garantire un’equa ridistribuzione del reddito dando “pari opportunità iniziali” a tutti in quanto, in questo modo, chi è più ricco contribuisce più degli altri a pagare i servizi pubblici: una maniera di equilibrare maggiormente il sistema potrebbe essere quella di abbassare le aliquote dei ceti meno abbienti. Dunque non è vero che nel sistema attuale i poveri pagano l’università ai ricchi; il problema è casomai quello di dare più opportunità alle classi più povere, di rendere accessibile al maggior numero possibile di cittadini l’accesso all’istruzione universitaria e, dunque, di costruire un sistema socialmente più equo oltre che più efficiente e di migliore qualità. Il sistema proposto di tasse e prestiti è funzionale a questo scopo?

Per prima cosa è necessario ricordare che quando si considera la suddivisione della popolazione in fasce di reddito ci s’imbatte nel problema dell’evasione fiscale, che affligge l’Italia nel suo complesso. A questo proposito è sufficiente notare che meno del 15% della popolazione dichiara un reddito superiore a 29.000 euro/anno. Questa situazione ci ricorda l’arbitrarietà nell’identificazione, da un punto di vista fiscale, delle famiglie più abbienti. E’ ovvio che una seria politica di lotta all’evasione fiscale è indispensabile per qualsiasi decisione lo Stato debba prendere, compreso il sistema dei prestiti d’onore. Non è forse un caso che nei paesi dove questo sistema è applicato (Stati Uniti, Inghilterra) non ci sono dei problemi d’evasione così strutturali come in Italia. Dunque, una seria lotta all’evasione fiscale non solo potrebbe fornire più risorse allo Stato, ma potrebbe anche non falsare le regole del gioco.

E’ chiaro che con il sistema di alte tasse e prestiti chi ha una famiglia abbiente non si deve indebitare. Invece, per chi non ha disponibilità, studiare diventa una scommessa, ovvero un’ipoteca sul proprio futuro. Questa situazione non può che disincentivare i meno abbienti allo studio allargando la forbice sociale. Inoltre bisogna considerare la proposta nel contesto attuale della realtà italiana, in cui la disoccupazione giovanile (15-24 anni) è del 30%, in cui si prevede che molti lavoratori atipici potranno aspirare solo all’assegno sociale (oggi di 411 euro), e con i redditi che si prospettano in futuro per gli studenti attuali la percentuale di chi non sarà in grado di restituire la somma potrebbe essere altissima generando dunque “una bolla universitaria” come sta avvenendo negli Stati Uniti: mentre le tasse universitarie sono in aumento, i rendimenti di un diploma di laurea sono in calo e la solidità dei prestiti agli studenti è minacciata da crescenti tassi di insolvenza.

Non va dimenticato poi che i prestiti per coprire le spese d’istruzione si aggiungono all’indebitamento delle famiglie, una delle principali cause dell’attuale crisi finanziaria. Per questo motivo, anche negli Stati Uniti, ci sono delle forti critiche al sistema dei prestiti. Per fare un esempio, l’86% dei medici negli Stati Uniti si laureano contraendo un debito medio di 155.000 dollari, cosa che sta portando a una notevole contrazione del numero di medici, che pure sono necessari al paese. Questo esempio mostra chiaramente che l’istruzione non è un investimento a favore del singolo ma a favore della comunità e per questo deve essere pubblica e finanziata dallo Stato: è la comunità nella sua globalità, a prescindere dal censo, che trae giovamento dall’istruzione.

Nella proposta è tuttavia previsto che vi sia un certo numero di “insolvenze”. A questo riguardo si nota che

«naturalmente questo comporterà che si debba prevedere una certa percentuale di casi in cui la restituzione non avverrà; si può però evitare che ne derivi un maggior onere per lo Stato stabilendo che questa percentuale sia coperta (in tutto o in parte) dalle università stesse interessate, che così ne risulteranno responsabilizzate sia riguardo alla qualità degli studenti ammessi sia riguardo alla qualità dell’insegnamento».

Dunque lo Stato (o anzi una fondazione a partecipazione statale già prevista dal DL 70 del 13 maggio 2011) anticipa dei soldi all’università per ogni studente che non può permettersi di pagare le tasse; poi, se lo studente trova un buon lavoro restituisce i soldi allo stato, altrimenti è l’ateneo che deve restituirli. In questo modo, non solo gli atenei sono costretti ad agire come imprese private che investono sulla possibilità che i propri studenti trovino lavori ben remunerati, ma diventa il mercato del lavoro a influenzare cosa e come s’insegna. E’ ovvio che la scommessa abbia tanto più probabilità di successo quanto più la famiglia dello studente è agiata e quanto più una laurea è spendibile nel mercato del lavoro. Minimizzando il rischio si è naturalmente portati a concedere prestiti a studenti provenienti da famiglie più abbienti che studiano materie più vicine al mondo delle professioni. Vale la pena ricordare, come ha ben spiegato il premio Nobel per la fisica Sheldon Glashow, che il “ritorno” economico delle scienze di base, ammesso che sia possibile quantificarlo concretamente, richiede generalmente un tempo scala più lungo di quello rilevante per la vita di una singola persona.

In conclusione la vera e unica ragione per aumentare le tasse è la compensazione della diminuzione del finanziamento pubblico all’università, da attuare secondo i dettami dell’ideologia neo-liberista, e non il perseguimento di una maggior qualità della ricerca o dell’insegnamento o di una maggiore equità sociale. Tuttavia, piuttosto che diminuire, un sistema basato su alte tasse universitarie e prestiti d’onore, aumenterebbe la differenza di possibilità e opportunità tra i ceti più e meno abbienti, allargando la forbice sociale e rendendo il sistema sostanzialmente più iniquo e con meno giustizia sociale. Inoltre, questo sistema metterebbe in grande difficoltà gli atenei nei territori economicamente più deboli abbandonando a se stesse le zone più depresse del paese. Infine, questo sistema non può che avere delle conseguenze deleterie per la stessa istituzione universitaria, condizionando non solo la scelta di chi avrà possibilità di studiare, ma anche di cosa sarà più conveniente studiare, secondo una logica assoggettata alle richieste di un malinteso mercato.

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Tasse per un’università più equa: risposta a Sylos Labini (Andrea Ichino)

12 giugno 2011

Ringrazio Francesco Sylos Labini per i suoi commenti stimolanti, anche se critici, al mio tentativo di quadrare il cerchio: ossia di trovare una strada per rifinanziare gli atenei in un modo che sia equo per i meno abbienti, responsabilizzi i singoli e le istituzioni per evitare sprechi di risorse e sia sostenibile nel lungo periodo entro i margini ristretti dei nostri conti pubblici.

Come ognuno sa il debito pubblico che stiamo lasciando alle future generazioni è esorbitante e in questo momento serve a poco discutere a chi vada attribuita questa pesante responsabilità. Ma è bene sgombrare subito il campo da un’illusoria soluzione per quadrare il cerchio, spesso menzionata in questi dibattiti. Chi vagheggia la possibilità di finanziare l’università italiana con riduzioni di altre voci della spesa pubblica (ad esempio gli aerei da caccia dell’esercito) oppure con la lotta all’evasione fiscale, deve comprendere che anche se queste strade fossero facilmente e immediatamente perseguibili (e certamente lo sono e devono essere percorse), ogni euro da loro fornito deve essere utilizzato per ridurre l’esorbitante debito pubblico accumulato nel passato. Francesco pensa che questo non sia vero perché è una questione di scelte politiche. Io penso che ridurre il debito pubblico sia una questione di sopravvivenza del nostro Paese e di equità verso i nostri figli e nipoti. Ma quand’anche fosse vero che è solo una scelta politica, in un paese democratico il governo riflette le preferenze dei suoi elettori. In attesa di riuscire a convincere gli italiani a pagare le tasse e a preferire buona ricerca invece che caccia-bombardieri, preferisco pensare intanto, con concreta creatività, a soluzioni alternative.

Tra breve uscirà una variante della proposta iniziale oggetto dell’interrogazione parlamentare, che attraverso un inedito spiraglio istituzionale potrebbe consentire di risolvere in modo significativo il problema del reperire fondi per l’università in modo compatibile con i vincoli di bilancio. Ma in attesa di poter rendere pubblica questa nuova versione, di cui ancora devo verificare alcuni dettagli importanti, qui mi limito a rispondere brevemente alle critiche di Francesco, per la parte che riguarda strettamente la proposta.

1) NELL’ATTUALE SITUAZIONE SONO I POVERI A PAGARE L’UNIVERSITÀ AI RICCHI?

La risposta è si perché perfino nell’ipotesi (da verificare come vedremo) che in Italia i ricchi contribuiscano più dei poveri alla fiscalità generale essendo le aliquote irpef disegnate in modo progressivo, se le tasse universitarie sono uguali per tutti ma i ricchi vanno all’università più dei poveri, il finanziamento dell’università risulta disegnato in modo regressivo, e quindi riduce la progressività complessiva del sistema tributario.

L’art. 53 secondo comma della nostra Costituzione dice che “Il sistema tributario è informato a criteri di progressività”. Questi criteri sono stabiliti esplicitamente dalle leggi che determinano le aliquote del prelievo fiscale. Il finanziamento dell’università, invece, modifica questi criteri di progressività in un modo che non è voluto dal Parlamento, ma dettato dalla frequenza relativa con cui ricchi e poveri accedono all’università, se le tasse universitarie sono uguali per tutti. E ci sono forti motivi per ritenere che questa modificazione possa arrivare ad annullare completamente o addirittura invertire di fatto la progressività voluta dalle leggi. L’esempio numerico che segue illustra questa realistica possibilità.

Consideriamo un paese in cui ci siano 10 cittadini, 3 ricchi che guadagnano 100 e 7 poveri che guadagnano 10. Supponiamo che questo paese decida che sia equa una tassazione progressiva al fine di ridurre la disuguaglianza dei redditi tra ricchi e poveri. A questo fine il paese decide che i ricchi debbano pagare il 40% di tasse mentre i poveri solo il 20%. Quindi l’ammontare di tasse pagate dai ricchi sarà 3*40 = 120 mentre l’ammontare pagato dai poveri sarà 7*2 = 14. Le entrate fiscali del paese ammontano quindi a 134.

Supponiamo che il governo di questo paese decida di usare questo gettito fiscale per un bene pubblico (ad esempio istruzione elementare) che per ipotesi è usato da ricchi e poveri in misura uguale procapite, ossia 13,4 a testa. Quindi un cittadino ricco che ha un reddito prima delle tasse di 100, dopo le tasse e l’erogazione del bene pubblico si ritrova con 100 – 40 + 13,4 = 73,4. Un cittadino povero invece, che ha un reddito prima delle tasse pari a 10, dopo le tasse e l’erogazione del bene pubblico avrà un reddito pari 10 – 2 + 13,4 = 21,4.

Quindi prima dell’intervento del governo un povero aveva un reddito pari al 10% di un ricco. Dopo l’intervento del governo un povero ha un reddito pari a circa il 29% del ricco. L’intervento statale ha ridotto la disuguaglianza dei redditi come nelle intenzione del governo che ha fatto questo rappresentando la volontà della maggioranza dei suoi elettori.

Ora ipotizziamo che l’anno successivo il governo utilizzi lo stesso prelievo fiscale per finanziare un diverso bene pubblico, ossia le università. Nel caso dell’istruzione terziaria, però solo 4 cittadini si iscrivono all’università: 3 ricchi e 1 povero. Ciascun iscritto all’università riceve quindi, sotto forma di istruzione universitaria, un quarto del gettito fiscale, pari a 33,5 (ovvero 134/4).

In questo caso il reddito procapite dei 3 cittadini ricchi, dopo l’intervento statale, è pari a 100 – 40 +33,5 = 93,5. Invece il reddito del cittadino povero che va all’università è pari a 10 – 2 +33,5 = 41,5. Infine il reddito procapite dei 6 cittadini poveri che non vanno all’università è pari 10 – 2 = 8. Ne consegue che il reddito medio procapite dei 7 poveri è 41,5*1/7 + 8*(6/7) = 12,8.

Quindi in questo secondo anno, mentre prima dell’intervento statale il povero medio guadagna il 10% del ricco medio, dopo l’intervento statale il povero medio guadagna il 13,7% del ricco medio. Alla fine del primo anno, dopo l’intervento statale, il reddito procapite di un povero medio era pari al 29% del reddito procapite di un ricco

Ossia nonostante la volontà popolare abbia chiesto al governo di realizzare un sistema progressivo di tassazione, il fatto che l’università sia usata dai ricchi più che dai poveri finisce per ridurre notevolmente la progressività della fiscalità generale contrariamente a quanto desiderato dalla collettività. È importante notare che nel primo anno, in cui il bene pubblico (istruzione elementare) era da tutti usato in modo uguale, la progressività del sistema tributario voluta dalla collettività non veniva ridotta.

Il libro di Baldini e Toso, Disuguaglianze, povertà e politiche pubbliche, Il Mulino 2009, utilizza i migliori dati a disposizione per fare questi conti nella giungla del sistema tributario italiano. Alla fine di questi conti, come dicevo all’inizio, non è nemmeno chiaro quanto progressivo sia il prelievo fiscale in Italia. Ad esempio, secondo Baldini e Toso, i contributi e le imposte dirette riducono l’Indice di Gini (un indice della disuguaglianza dei redditi individuali) da 0,394 a 0,325 ma le imposte indirette fanno risalire l’indice a 0,362. Tenendo conto degli effetti del sistema di finanziamento dell’università l’Indice di Gini salirebbe ancora. E non appena possibile, a questo punto, farò il calcolo preciso.

2) L’UNIVERSITÀ ITALIANA NON È GRATUITA

Niente da eccepire su questo, soprattutto tenendo conto anche dei costi di spostamento degli studenti, qualora iniziassero a spostarsi di più per scegliere gli atenei migliori. Ma non vedo che rilevanza abbia questo punto ai fini della mia proposta. Anche perché, così come vengo accusato dai critici di voler bovinamente copiare i numerosi paesi stranieri che hanno introdotto sistemi analoghi a quello da me proposto, mi verrebbe da chiedere a Francesco perché dovremmo copiare gli altri paesi nel fare una cosa iniqua e inefficiente come non fare pagare le tasse universitarie ai ricchi!

Ma lasciando perdere i paragoni internazionali, nessuno sembra volersi accorgere del fatto che la mia proposta consiste nel far pagare l’università di più ai ricchi (quelli di oggi subito e quelli di domani in modo differito) e di farla pagare di meno ai poveri. Ovvero anche se volessimo lasciare invariato il costo attuale medio dell’accesso all’università, per i motivi di equità di cui al punto (1) la mia proposta prevede di differenziare le tasse universitarie rispetto al reddito familiare e di farle pagare comunque solo in modo differito, solo subordinatamente al raggiungimento di un reddito sufficiente e solo in proporzione a detto reddito. Questa offerta vale per chi non possa pagare subito le tasse universitarie e per chi preferisca pagarle in modo differito.

Questo, lo ripeto ancora una volta, vuol dire che i poveri di oggi e di domani ossia quelli che nonostante l’accesso all’università non riescono ad aumentare i loro redditi, non pagano nulla. Non si vede quindi in base a quale argomento Francesco verso la fine del suo articolo scriva: “E’ chiaro che con il sistema di alte tasse e prestiti chi ha una famiglia abbiente non si deve indebitare. Invece, per chi non ha disponibilità, studiare diventa una scommessa, ovvero un’ipoteca sul proprio futuro. Questa situazione non può che disincentivare i meno abbienti allo studio allargando la forbice sociale”. Ritengo proprio che con il mio sistema accadrebbe il contrario, soprattutto se favorisse la nascita di corsi di laurea di eccellenza.

In secondo luogo, la mia prima risposta (punto 1 sopra) riguardo alla regressività del finanziamento universitario, suggerisce che probabilmente è possibile (e auspicabile) aumentare il livello medio delle tasse universitarie, ma caricando i più abbienti in proporzione maggiore di quanto vengano ridotte le tasse universitarie per i meno abbienti. Ossia è auspicabile e possibile rendere progressivo anche il finanziamento dell’università considerato da solo in isolamento dal resto mediante tasse universitarie fortemente differenziate sulla base del reddito familiare. Il che non sarebbe altro che una applicazione diretta dell’art. 53 della Costituzione.

Infine, se l’inedito spiraglio istituzionale a cui sopra accennavo si conferma, nella nuova versione della mia proposta l’aumento delle tasse universitarie combinato con prestiti pubblici sostanziosamente agevolati per i meno abbienti, costituirà di fatto uno strumento per convogliare maggiori risorse pubbliche, fornite dai prestiti, agli atenei che creino davvero didattica e ricerca di eccellenza, portate dalle gambe degli studenti che vorranno scegliere solo gli atenei migliori.

3) L’UNIVERSITÀ ITALIANA NON È DI PESSIMA QUALITÀ

Anche ammesso che Francesco abbia ragione su questo punto, se la mia proposta consentisse di migliorare questa già altissima qualità, perché non farlo? Ma in realtà, al di là degli indicatori bibliometrici sempre difficili da interpretare in modo conclusivo essendo cruciale stabilire che cosa deve essere usato al loro denominatore, c’è un indicatore molto chiaro ed evidente della qualità della ricerca in Italia che ho analizzato dati alla mano nel mio articolo (con Roberto Perotti e Stefano Gagliarducci) su “Lo splendido isolamento dell’università italiana”, pubblicato nel libro di Boeri et al (ed.) Oltre il Declino (Mondadori 2005, scaricabile anche da http://www2.dse.unibo.it/ichino/gipp_declino_18.pdf).

L’assenza di ricercatori stranieri nelle nostre università è l’indicatore più esplicito dell’esistenza di qualcosa di grave che non va nel modo in cui la ricerca scientifica si svolge in Italia. La cosiddetta “fuga dei cervelli italiani” non sarebbe un problema se fosse contraccambiata da un arrivo di cervelli stranieri, come fisiologicamente avviene all’estero. Anche Francesco richiama questo fatto citando Marino Regini. Ma stranamente non lo considera come il segnale più evidente del fatto che la ricerca in Italia, tranne che in alcuni importanti punti di eccellenza, non raggiunge la qualità sufficiente per attirare ricercatori dall’estero. E se Francesco mi rispondesse che il motivo sono i bassi salari e il sottofinanziamento, torniamo ai punti precedenti: bisogna trovare modi per aumentare il finanziamento all’università. Uno di questi modi, ispirato alla nostra Costituzione è farla pagare soprattutto ai ricchi, possibilmente più che in misura proporzionale al loro utilizzo, proprio per ottenere l’effetto progressivo voluto dai nostri Padri Costituenti.

Infine, la Bocconi non compare nelle statistiche internazionali degli atenei generalisti perché è un ateneo in cui si insegna praticamente solo economia. Se Francesco volesse usare le statistiche appropriate troverebbe che in Economics la Bocconi è davanti a tutte le altre università italiane (purtroppo anche davanti alla mia, che recentemente ha perso due dei suoi migliori professori migrati alla Bocconi e a UPF, Barcellona, proprio perché non c’era modo di offrire loro stipendi e condizioni di ricerca comparabili con quelli di queste due università). Uno di questi ranking specifici per economics è, ad esempio, quello bibliometrico (solo per la ricerca e basato sulle pubblicazioni nelle migliori riviste di economia) fatto dal Economics Department di Tilburg (https://econtop.uvt.nl/rankinglist.php). Dal punto di vista della didattica e dei servizi agli studenti credo nessuno dubiti che la Bocconi stia davanti tutti (almeno in economics) e lo può proprio fare grazie a maggiori risorse. Sui ranking in economics vedi anche il mio già citato articolo sullo “Splendido isolamento dell’università italiana”. Non è la mia materia, ma spero che medici e biotecnologi di questo sito possano dirci qualcosa riguardo all’Istituto San Raffaele.

Mi fermo per non abusare ulteriormente della pazienza dei lettori, sperando di aver risposto convincentemente e precisamente alla maggior parte dei punti sollevati da Francesco.

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Tasse universitarie: risposta a Ichino (Sylos Labini)

17 giugno 2011

Visto l’interesse che ha suscitato il tema, vorrei chiarire alcuni punti rispetto a quanto affermato nell’articolo di Andrea Ichino scritto in replica al mio precedente intervento sul tema delle tasse universitarie.

Il debito pubblico italiano è di quasi 2000 miliardi di euro, l’evasione fiscale è stimata essere di circa 300 miliardi di euro ed il finanziamento all’università, è di circa 7 miliardi di euro. Dunque, il “risparmio” sulla spesa per università e ricerca inciderebbe per una frazione irrilevante sul debito pubblico: mi sembra ovvio che non si parte da qui per risanare le finanze del paese. Il problema, casomai, è cercare di rendere questa spesa più efficiente, oltre che di portarla al livello degli altri paesi europei. La decisione di incrementare la spesa per l’università e la ricerca, o di migliorare la sua qualità, è puramente politica ed ha davvero poco a che fare con il fatto che vi sia un debito pubblico 200 volte più grande. E’ infatti chiaro che i capitoli di spesa su cui incidere potrebbero essere altri soprattutto se s’iniziasse a considerare la spesa per l’università e la ricerca come un investimento per le future generazione, e non come una inutile fonte di spreco di risorse.

Come è noto a qualsiasi studente, e come risulta dal regolamento di qualsiasi università, le tasse universitarie sono proporzionali al reddito (con una saturazione per i redditi più alti): non si capisce perché questo fatto debba essere necessariamente ignorato nell’argomento e nel modello presentati da Ichino. Per fare qualche esempio all’università di Torino ci sono 26 fasce contributive con importi che vanno da 300 a 1500 euro, mentre all’università di Cagliari ci sono 17 fasce contributive con tasse annuali da 180 a 2500 euro. Invece di presentare modelli fondati su ipotesi irrealistiche e numeri inventati, tra l’altro con risultati piuttosto confusi, bisognerebbe analizzare la realtà.

C’è un fatto dato per scontato da Ichino ma che scontato non è. Quale indagine mostrerebbe che i ricchi vanno all’università più dei poveri? Per fare un esempio il 72% dei laureati del consorzio Alma Laurea (che comprende la maggioranza delle università ed anche la maggioranza dei laureati – 110.000 su 180.000 lauree triennali) “acquisiscono con la laurea un titolo che entra per la prima volta nella famiglia d’origine”. Assumendo che la ricchezza delle famiglie sia proporzionale al grado d’istruzione (anche questa ipotesi da verificare, soprattutto in Italia ed alla luce dell’evasione fiscale) questo dato mostra che non è affatto ovvio affermare che la maggioranza di chi frequenta l’università è ricco (3 ricchi contro 1 povero nell’esempio di Ichino).

Prendo atto che Ichino riconosce che l’università italiana non è gratuita e dunque smentisce quanto scritto nel suo precedente articolo. La rilevanza di affermare che l’università sia gratuita e di scarsa qualità sta proprio nel fornire una base ideologica alla proposta di introdurre un sistema che cambi radicalmente la dinamica del finanziamento, dell’accesso e dell’indipendenza dell’istituzione universitaria: un sistema che funziona abbastanza bene ma che ha criticità diffuse si deve e si può riformare, un sistema completamente corrotto e inefficiente va rifondato dalle fondamenta.

Come paragone internazionale possiamo considerare, ad esempio, la Francia, dove: le tasse universitarie sono minori che in Italia, la percentuale di studenti che usufruiscono di borse di studio è più alta, il diritto allo studio è tutelato grazie anche ad un serio impegno in infrastrutture. Dove, inoltre, l’investimento in università e ricerca è maggiore che in Italia: non si capisce perché nel considerare i confronti internazionali si debba tacere sempre che la spesa nell’istruzione terziaria in Italia è tra le più basse dei paesi OCSE. O forse si assume che abbia ragione Roberto Perotti quando afferma, normalizzando in maniera arbitraria i dati OCSE, che “la spesa italiana per studente equivalente a tempo pieno diventa 16.027 dollari, la più alta del mondo dopo Usa Svizzera e Svezia” ?

Circa la qualità dell’università italiana, di nuovo la denigrazione continua fatta da Ichino e dai suoi colleghi non ha certo giovato ad una serena discussione su come sia possibile migliorare l’esistente. Come illustrato nel libro che ho scritto con Stefano Zapperi e in un altro contributo l’uso dell’impact factor per la classificazione in qualità dei paesi, come fatto nell’articolo citato da Ichino, è del tutto arbitrario e non giustificato. L’H-index è una misura più significativa dell’impatto. Il suo valore globale, o diviso per settori, mostra che l’Italia si colloca settima al mondo. Per capire l’efficienza del sistema è necessario normalizzare questo dato rispetto alle risorse investite nel sistema universitario e della ricerca: da ciò risulta che il sistema italiano è anche ragionevolmente efficiente. Data però l’inefficienza di una parte del sistema, che nessuno mette in dubbio, la caratteristica principale del sistema universitario e della ricerca italiane è la sua eterogeneità. La qualità di tanti gruppi di ricerca italiana, in cui sicuramente molti ricercatori stranieri ambirebbero a entrare, è testimoniata anche dal fatto che tanti giovani studenti che vanno all’estero riescono ad ottenere posizioni permanenti o borse di studio prestigiose come quelle erogate dall’European Research Council.

Per quanto riguarda l’assenza di ricercatori stranieri in Italia, le cause sono molteplici e non è questa la sede per approfondire la questione. Consiglio però di provare a leggere un bando di un concorso, per esempio, del CNR e di confrontarlo con un del CNRS francese, o fare un semplice schema per comprendere quando sono banditi i concorsi in Italia o in Francia (in fase con la rotazione della Terra) e quando sono assegnati i posti, o considerare quanto guadagna un ricercatore appena assunto. Un semplice paragone può mostrare le problematicità del sistema italiano, e il motivo per cui un gran numero di ricercatori italiani sta emigrando in Francia da qualche anno a questa parte. La differenza salariale è solo una parte del problema.

Per quanto riguarda la Bocconi, il mio riferimento era alle classifiche internazionali generaliste, che d’altronde sono quelle sempre citate quando si discute del cattivo posizionamento delle università italiane. Se invece si considerano le classiche scorporate per campi disciplinari si trovano delle sorprese, e il caso più eclatante è sicuramente la ventesima posizione della facoltà di scienze dell’università Sapienza di Roma. D’altro canto la Bocconi si posiziona, nella categoria scienze sociali ed economiche, a metà classifica delle prime cento ma a poca distanza dalla facoltà di economia dell’università di Bologna (a volte anche dietro di questa): non solo per produzione scientifica ma anche per gli altri parametri che le diverse classifiche usano per misurare la qualità. Se si misura la qualità in base al ranking in queste classifiche, sorge un dubbio: perché pagare dieci volte le tasse universitarie per andare alla Bocconi anziché all’università di Bologna?

La proposta di Ichino non “consiste affatto nel far pagare l’università di più ai ricchi (quelli di oggi subito e quelli di domani in modo differito) e di farla pagare di meno ai poveri”. Quello che succederebbe è di escludere i ceti meno abbienti dall’istruzione universitaria, bloccando così uno dei maggiori veicoli di mobilità sociale e condizionare anche la scelta del corso di studi. Come ho già illustrato, la Costituzione prevede un meccanismo chiaro ed efficace (se lo si adopera bene) per fare pagare ai ricchi i servizi pubblici in modo differenziale: la progressività dell’imposizione. Inoltre: (a) per chi è già ricco, pagare l’università ha un impatto relativamente poco rilevante sul reddito e lo può fare senza indebitarsi. Chi è povero, se riesce a usufruire dell’ascensore sociale, deve pagare interamente (anche se in modo differito) la sua ascesa. Rapportato al reddito (suo e/o della sua famiglia) nel corso della vita l’impatto percentuale è più alto per un meno abbiente che per un più abbiente. Insomma, rimanere o arrivare in fascia alta costa uguale per tutti: peccato però che per chi è già in fascia alta, questo costo sia meglio sopportabile. (b) Ammesso che l’ascensore sociale funzioni, chi è povero deve valutare se gli conviene al netto della restituzione del debito. Potrebbe essere meglio un uovo oggi (lavorare dopo la maturità) piuttosto che una gallina domani (laurea e successiva restituzione del debito). Nel complesso, un disincentivo a conseguire titoli di studio che si ripagano troppo poco o troppo tardi. (c) Rendere più aleatorio il finanziamento di un servizio pubblico è il primo passo per smantellarlo. In particolare, verrebbero messe a rischio le università nelle regioni economicamente svantaggiate dove bisognerebbe invece favorire la crescita del capitale umano. (d) Ci sono ottime ragioni perché scienza e cultura siano libere. Su temi legislativi, etici, nucleare, OGM, salute, effetti delle nuove tecnologie su salute e società, ecc., è bene che ci siano ricercatori liberi. Se prevale l’aspetto economico, i finanziamenti d’aziende energetiche, alimentari, farmaceutiche condizionerebbero in modo pesante la libertà d’insegnamento e d’ opinione.

Inoltre, come ha ben messo in luce Alessandro Figà Talamanca “Se per l’istruzione si deve, prima o poi, pagare, è naturale che vengano incentivate le scelte che offrono maggiori prospettive di guadagni futuri. Se gli studi universitari sono considerati alla stregua di un investimento personale, l’accorto investitore-studente sceglierà quelli potenzialmente più remunerativi. E’ proprio questo che vogliamo? Un tale effetto può essere ritenuto positivo solo da chi ritiene che il valore sociale di un’attività lavorativa sia misurato dal reddito che se ne ricava. In altre parole da chi ritiene che la differenza di reddito tra un consulente finanziario ed un maestro elementare misuri la differenza del valore sociale attribuibile alle loro attività. Ma questa non è tanto o solo una posizione decisamente di destra, ma è piuttosto una posizione ideologica che ignora la realtà. Ignora, ad esempio, che per la professione di maestro elementare, o di fisico teorico, siamo ben lontani da condizioni “di mercato”.”

Infine vorrei far notare che qualche giorno fa, proprio in relazione con le politiche del governo inglese che si vorrebbero adottare in Italia, una risoluzione dell’università di Oxford, votata da 283 professori (5 i contrari), afferma che “l’Università di Oxford non ha alcuna fiducia nelle politiche del Ministro per l’istruzione superiore”.

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