martedì 16 ottobre 2012

No al liberismo, si alle idee nuove: perchè non condividere Zingales

2 ottobre 2012  - L'intervista di sabato scorso all'economista padovano Zingales ha effettivamente aperto un dibattito. Fin quando un italiano, emigrato all'estero per assenza di prospettive nella ricerca,  viene a dirci dalla prestigiosa cattedra di Chicago che in Italia non si valorizza il merito, non ci sono regole e manca la concorrenza, gli si può solo dire che ha pienamente ragione.

I temi e i problemi vanno però distinti. Le questioni che riguarda la cattiva amministrazione degli istituti bancari e la crisi del tessuto imprenditoriale italiano sono sotto gli occhi di tutti. Abbiamo un sistema di concorrenza al ribasso dove le regole vengono continuamente violate e chi è davvero onesto rischia di non reggere la concorrenza. Poi ci troviamo ad affrontare il sistema corrotto con cui vengono gestiti gli appalti pubblici,  con cui vengono progressivamente privatizzate le società partecipate, una serie di cattive prassi che nulla hanno a che vedere con la liberalizzazione di un determinato servizio. Infine, arriviamo al groviglio di conflitto di interessi che governa i consigli di amministrazione di banche, imprese e società miste.


Ciò su cui possiamo essere d’accordo con Zingales,nonostante si tratti di alcuni dei mali principali della nostra Italia,  si fermano tuttavia qui.
Zingales parla di un’oligarchia del capitalismo, che ne avrebbe corrotto lo spirito e andrebbe quindi “rottamata”,  e teorizza un “capitalismo per il popolo” sostenendo che “il libero mercato, quello vero, è l’antidoto più efficace contro l’ingiustizia sociale”.
Per prima cosa, va chiarito che non si può parlare di fine delle ideologie a senso unico: così come si può ritenere superato il  comunismo e  tutta la galassia di pensiero che si rifà all’anticapitalismo, è necessario parlare allo stesso modo di tramonto del capitalismo e di tutte le forme di neoliberismo, quell’ideologia economica che in filosofia politica deriva dal liberalismo classico di Locke e Smith e che ha ispirato la teoria di Milton Friedman e la prassi politica del duo Reagan-Thatcher. I modelli sociali rappresentati dall’ ideologia pura e i loro esempi storici hanno chiaramente mostrato dei limiti. I limiti di una società senza libertà, come l’unione sovietica, così come i limiti di una società fondata sulle disuguaglianze globali e in mano al mercato del debito, ovvero il prodotto della cultura neoliberista.




Dal punto di vista del dibattito politico, intendiamoci, ciascuna di queste tradizioni  ha certamente qualcosa da dire. Questo accade perché ognuna di esse deriva da determinati principi cardine e valori fondamentali, valori che sono ampiamente condivisi nell’ambito del dibattito etico e politico internazionale e intorno ai quali, a seconda delle priorità che vengono stabilite tra di essi, nascono le diverse dottrine politiche.
Una prima distinzione, tra valori e ideologie, è quindi fondamentale.  Il libero mercato è un valore, che riguarda l’economia e la politica. I termini liberismo e capitalismo rappresentano invece rispettivamente un’ideologia e un modello economico. Se dobbiamo ragionare al di là delle ideologie, è necessario affermare che il libero mercato è un valore fino a quando la logica del profitto non lede altri principi fondamentali. Esso è utile (anche se non l’antidoto) contro l’impoverimento e la stagnazione dell’economia di una nazione, ma la giustizia sociale è un altro conto.


Qui non possiamo essere d’accordo con Zingales: la giustizia socialenon può essere un obiettivo da raggiungere lavorando all’interno del liberismo in economia e del liberalismo in politica, così come non si può davvero tutelare il libero mercato se si cercano gli strumenti necessari solo nello statalismo e nel socialismo.
Ritornando alla nostra Italia, quindi, è necessario riconoscere certamente i giusti moniti di Zingales sulla mancanza di regole, merito e concorrenza nella nostra economia. Tuttavia, non è possibile fare finta di non vedere che le politiche di austerity che stanno martoriando l’Italia e l’Europa siano figlie di una concezione liberista dell’economia, specie del mercato del denaro. Quando si taglia, si rinuncia alle misure per la crescita, si colpiscono servizi, pensioni e lavoro,  si sceglie di ricapitalizzare le banche e al contempo si tutelano interessi particolari e conflitti di interesse, è chiaro che i problemi dell’Italia si chiamano tanto liberismo tanto corporativismo, un vizio tutto nostrano, che attraversa storicamente partiti e territori lungo tutta la penisola.


Le ideologie hanno storicamente fallito anche perché sono entrate in contraddizione con i principi e i valori dai quali esse stesse nascevano. In questo senso, le politiche liberiste che stanno provocando la crisi mondiale non solo stanno allargando la forbice delle disuguaglianze globali, ma non si sono dimostrate neanche in grado di garantire il libero mercato, motivo per cui anche Zingales dice che  bisogna “riformare” il liberismo contro “l’oligarchia capitalista”.
Io credo, invece, che per garantire la libertà e il libero mercato, così come la solidarietà e il bene comune, bisogna rifiutare con fermezza le vecchie ideologie, specialmente quella che storicamente ci troviamo ora a fronteggiare in maniera più prepotente, cioè il neoliberismo.
Qualcuno sostiene che in Italia è sempre mancato un partito realmente liberale in grado di combattere la mentalità assistenzialista e corporativa. Su questo di può discutere.
Ma la storia di un Paese non si riporta indietro, si cambia immaginando il futuro. E oggi bisogna essere coscienti che nè il liberalismo politico nè il liberismo economico, (che in altre lingue come il francese e lo spagnolo vengono indicati con lo stesso termine) possono rappresentare un’ancora di salvezza politico-ideologica.
Una cosa è difendere il libero mercato come valore, un’altra è sostenere un’ideologia che ne fa “il valore”. Un conto è far propri i principi liberali in materia di diritti civili e libertà individuale, un altro conto è far propria un impostazione che considera il singolo la misura di tutto.
Guardando ancora all’Italia,  l’idea di Zingales per cui bisogna sostenere una “sinistra liberale” contro una  “sinistra anticapitalista” è qualcosa che non porta da nessuna parte. Se l’obiettivo fosse sconfiggere la sinistra dell’inciucio plurimo, quella di D’Alema, potremmo essere d’accordo. Se l’obiettivo è promuovere una versione aggiornata del liberismo con Matteo Renzi, certamente no.  Il concetto è che essere antiliberisti non vuol dire necessariamente essere anticapitalisti.
Rifiutare le ideologie non vuol dire rifiutare di schierarsi a destra o a sinistra. La sinistra postideologica è quella che guarda per prima cosa alla prassi politica e si domanda  se ogni atto politico va nell’interesse della maggior parte dei cittadini e garantisce le pari opportunità e la solidarietà come basi indispensabili per la libertà dell’individuo. Ci sono dei termini, come socialdemocrazia, liberalismo sociale, socialismo liberale che individuano, quasi provvisoriamente, degli orientamenti politici alla ricerca di una visione in grado di bilanciare i principi.


Ma anche queste, ormai, sono parole “vecchie”, dei bei “libri” in cui poter riconoscere parte di sé, ma non dei manuali su come affrontare il presente e il futuro.
Quei manuali ancora non li ha scritti nessuno,  è vero. Ma come scriverli, visto che siamo passati in nemmeno 20 anni dal crollo del muro di Berlino allo scontro tra economia globale e fondamentalismi, oligarchie economiche e domanda globale di democrazia? Evidentemente ci toccherà fare a meno del libretto di istruzioni. Forse di fronte ad un passaggio storico straordinario ci tocca un compito altrettanto straordinario.


Tornare al merito delle teorie, rivalutare le proposte e le soluzioni, non come dogmi ma come strumenti da riscoprire e mettere insieme. Il XX secolo ci ha fornito diverse analisi politico economiche, tra cui ad esempio la teoria keynesiana, fino ad arrivare alle recenti elaborazioni sulla teoria della giustizia di Martha Nussbaum e Amartya Sen e anche alle questioni poste da esperienze come quella del partito pirata norvegese, che pongono problemi seri in merito al rapporto tra rete e democrazia che non possono essere bollate genericamente come folklorismo. Questi ed altri elementi devono essere recuperati, in maniera quanto più critica e propositiva.


C’è un ampio fronte di cittadini in Italia e nel mondo,  che sta ormai comprendendo, nonostante le enormi operazioni di distrazione di massa, che la cosa di cui abbiamo più bisogno è un vero e proprio pragmatismo politico, una prassi quotidiana in grado di individuare il merito dei problemi e comprendere come bilanciare quotidianamente l’attuazione reale dei principi cardine di libertà e solidarietà nell’interesse di tutti, che metta al centro la qualità della vita delle persone e la lotta alle sofferenze.
Una sinistra post-ideologica e pragmatica, insomma, che sia in grado di affrontare le sfide che ci impone la rapidissima evoluzione dell’economia, della tecnologia e della comunicazione globale, un’evoluzione che ci pone di fronte problemi mai visti prima, come le catastrofi ambientali degli ultimi anni o le manipolazioni dell’ingegneria genetica. Un pensiero politico, infine, che ci permetta di combattere l’indifferenza dominante delle giovani generazioni verso la politica, che ci permetta di elaborare nuove forme di partecipazione e di utilizzare al meglio la rete, ma anche di individuare le ideologie di turno che minacciano i diritti di tutti. In e idee nuove questo senso credo sia indispensabile dire con chiarezza: no al liberismo, largo alle idee nuove.

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